Se Lutero voleva riformare la chiesa, Enrico VIII aveva un interesse più personale quando decise di rompere con Roma, nel 1533: papa Clemente VII non gli concedeva la nullità del matrimonio con Caterina d’Aragona che non gli aveva dato figli maschi per la successione al trono.
Eppure la nascita della chiesa anglicana non può essere liquidata come il capriccio di un sovrano – per quanto i capricci dei potenti, insieme alle sofferenze degli ultimi, siano il motore della storia da che mondo è mondo. Perché in realtà gli stati moderni nacquero proprio così: prendendo le distanze da quel regno pontificio che veniva preso a modello della nuova organizzazione statale. L’Europa si divideva su base nazionale e anche la religione, il cristianesimo, faceva capo al principe locale e non più a Roma – operazione tutt’altro che pacifica, come dimostrano le guerre sanguinose di quel periodo.
In effetti per la corona inglese all’inizio non fu un problema di dottrina. Ma già il figlio di Enrico VIII, Edoardo VI, aprì alla riforma protestante adottandone le restrizioni sui sacramenti e soprattutto promuovendo il Book of Common Prayer, il libro delle preghiere comuni in cui si condensava l’antica liturgia, non più in latino ma in inglese. Poco dopo Elisabetta I, la regina vergine, preoccupata per i conflitti che la questione religiosa aveva scatenato tra i sudditi, riportò l’anglicanesimo a una via di mezzo tra cattolicesimo e protestantesimo.
Ma le spinte in un senso e nell’altro continuarono nei secoli successivi: puritanesimo filocalvinista e restaurazione filocattolica, chiesa alta e chiesa bassa, controllo politico e fervore spirituale. Una storia movimentata che accompagna tutta l’espansione e la decadenza dell’impero britannico. Oggi la comunione anglicana non parla più solo inglese: è una federazione di trentotto chiese nazionali e regionali sparse in tutti i continenti, con nomi diversi (episcopaliani negli Stati Uniti) e divisioni anche profonde, soprattutto riguardo al sacerdozio femminile che venne approvato nel sinodo generale della chiesa d’Inghilterra del ’94 e spinse diversi pastori a chiedere accoglienza nella chiesa cattolica. Per loro Benedetto XVI istituì un ordinariato personale, una specie di superdiocesi. Oggi, invece, la fibrillazione è sul rapporto con le persone omosessuali: sensibilità politically correct tra gli anglicani del Regno Unito e degli altri paesi dell’emisfero nord, intransigente richiamo alla tradizione in quelli dell’emisfero sud.
Per quello che valgono i numeri, gli anglicani sono circa ottanta milioni. Ma più che contarli, quanto contano nelle società in cui vivono? Difficile stabilirlo, ma certo carità e difesa degli ultimi è un impegno prioritario, come testimoniano numerose iniziative. Justin Welby, l’attuale primate, impersona bene questa scelta di campo (ma come dimenticare un altro pastore anglicano, il sudafricano premio Nobel per la pace Desmond Tutu?). L’attuale arcivescovo di Canterbury è in prima fila nell’accoglienza ai rifugiati e nella critica alla deriva democratica in atto: al sinodo generale di Londra, pochi giorni fa, Welby ha detto che la Brexit, l’elezione di Trump, i successi di Le Pen in Francia e Wilders in Olanda sono tutti segnali di “un revival di nazionalismo, populismo e persino fascismo”.
L’impegno a favore degli ultimi è anche il frutto più maturo di un ecumenismo pratico che accomuna le diverse confessioni cristiane. Cinquant’anni dopo lo storico incontro di Paolo VI con il primate Michael Ramsey, nell’ottobre scorso Welby e Francesco hanno inviato diciannove coppie di vescovi, uno anglicano e uno cattolico, per una missione comune. Almeno in questo, Roma e Canterbury sono molto vicine. Può essere l’inizio di una nuova storia, una storia dalla parte degli ultimi. Certo ci vuole la fantasia della fede di un Henry Newman, per citare un santo anglicano e cattolico. Ma la chiesa è dei santi. Tutti i santi, su e giù dagli altari.
(Marco Burini)
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