Giovanni XXIII in un radiomessaggio dell’11 settembre 1962 (pochi mesi prima dell’apertura del Concilio Vaticano II) definì la Chiesa quale “Chiesa dei poveri”. Era un’espressione mutuata dal Cardinale Suenes che nel frattempo aveva mandato al Papa un “progetto per il Concilio”. Fu poi la volta del Cardinale Giacomo Lercaro, il quale nel dicembre 1962 tenne un discorso programmatico in aula conciliare sul tema della povertà. Una povertà essenziale, militante, che avrebbe dovuto affiancare in modo dogmatico il mistero dell’Eucaristia e della sacra gerarchia. Lercaro elogiò la povertà quale «sacramentum magnum», cioè «come un segno e un modo preferenziale di presenza e di forza operativa e salvifica del Verbo incarnato tra gli uomini». Al primo posto nel lavoro conciliare, a suo giudizio, doveva esserci la formulazione della dottrina evangelica della divina povertà del Cristo nella Chiesa. In realtà, tutto ciò ha avuto come effetto predominante un impoverimento del Vangelo e dell’evangelizzazione. Si cerca sempre un modo più accomodante di annunciare la Parola di Dio, liberandosi non solo di beni superflui ma anche di dottrine scomode. Non è un mistero che molti predicatori che vanno per la maggiore hanno psicologgizzato il Vangelo con la scusa della povertà, che da materiale e sociale è diventa nel frattempo esistenziale. Il peccato è normale e umano, perché povertà umana più estrema. E così il Vangelo langue, nel guazzabuglio di dottrine controverse.
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