A fronte delle polemiche ricorrenti, Totò Cuffaro precisa: “Non sono stato condannato per collusioni con la mafia. Bisogna ristabilire la verità storica e processuale”. Il servizio di Angelo Ruoppolo.
Divampano le polemiche intorno al rinnovato impegno in politica dell’ex presidente della Regione, Totò Cuffaro. Il commissario regionale della Democrazia Cristiana Nuova, da lui fondata, ha più volte replicato: “Non sono candidato, non sono candidabile, e anche se fossi candidabile non mi candiderei. Credo negli ideali democratici e cristiani, e li professo tramite una formazione politica. Ne ho il diritto. Non sono interdetto dal pensiero. Ho pagato, e caramente, il mio conto con la Giustizia”. Adesso Totò Cuffaro ritiene opportune alcune precisazioni. Lui è stato condannato per favoreggiamento aggravato alla mafia, ma non – come tanti ribattono – per collusioni con la mafia. E afferma: “Non sono mai stato ritenuto colluso con la mafia dalla sentenza che ho subito. I processi celebrati sono stati due. In tutti e tre gradi di giudizio relativi al processo per l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa è stato escluso che sia stato legato da un rapporto collusivo con la mafia perché i giudici hanno ritenuto inesistente il patto di natura politico-mafiosa o di scambio elettorale con l'organizzazione mafiosa di cui ero stato infondatamente accusato”. E poi Totò Cuffaro rimarca con determinazione: “Bisogna ristabilire la verità storica e processuale della vicenda giudiziaria, dopo l’inaccettabile e crescente disinfomazione non più tollerabile delle cronache di questi giorni. La sentenza, col sigillo della Corte di Cassazione, dovrebbe indurre ‘i detrattori’ a porre fine all'insopportabile travisamento della realtà a cui abbiamo assistito ormai da settimane, perché non corrisponde al vero nè alla realtà processuale che sia stato ritenuto in rapporto organico con la mafia. La condanna definitiva, e la pena che ho scontato a Rebibbia, sono legate al solo favoreggiamento personale che mi è stato contestato nei confronti dell'amico Mimmo Miceli, e soltanto indirettamente nei confronti di Giuseppe Guttadauro, che si relazionava con Miceli. La mia responsabilità per tale singolo fatto sarebbe, sotto il profilo del dolo eventuale, quella che avrei avvertito Miceli dell'esistenza di indagini nei suoi confronti, e Miceli lo avrebbe poi riferito a Guttadauro in ragione delle loro frequentazioni. E poichè Guttadauro all'epoca dei fatti era ritenuto un soggetto compromesso col sistema mafioso, il favoreggiamento imputatomi avrebbe assunto una forma 'aggravata' proprio per tale ragione, perchè si è ritenuto che ne sarebbe rimasta avvantaggiata anche l'organizzazione mafiosa. Ma un fatto del tutto episodico, così come ricostruito, con questa peculiare caratterizzazione, non può autorizzare alcuno a ritenere che da esso siano emersi gli elementi di una mia collusione con la mafia perché non ho mai avuto alcun contatto né con Guttadauro nè con nessun altro esponente dell'organizzazione mafiosa. Tra l'altro, l'impostazione accusatoria che ha generato la mia condanna non aveva convinto unitamente tutti i giudici che si sono occupati del processo, tanto che il Tribunale, in primo grado, non aveva ritenuto aggravato il favoreggiamento, così come invece avvenuto poi in Cassazione da parte del procuratore generale che, invero, aveva chiesto l'annullamento della sentenza di condanna”.
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