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La “normalità” con cui alla Clinica Santa Rita si operavano i pazienti che non ne avevano bisogno, mettendo irresponsabilmente a repentaglio la loro
salute se non la loro vita, solo per gonfiare i rimborsi del Sistema Sanitario Nazionale, non è molto dissimile in linea di principio dalla placida routine di un campo di sterminio, tanto che nelle motivazioni della sentenza di condanna, i giudici della IV sezione del Tribunale di Milano parlano esplicitamente di “connotazione soggettiva di particolare insensibilità e spietatezza”, mentre dalle indagini è emersa “l’ansia di riempire la sala operatoria”. Un’ansia che “non si fermava neppure di fronte a pazienti particolarmente fragili e indifesi, anch’essi trasformati, senza un barlume di pietà, in strumenti per la produzione del fatturato”. Tutto questo avveniva non nella Asl di un paesino del sud Italia soggiogato dalla mafia, ma nella civilissima Milano, nella capitale morale italiana dove ricchezza, scolarizzazione e benessere dovrebbero funzionare da anticorpi. E invece proprio a Milano, a due passi dal centro, per almeno due anni ha preso corpo l’incubo che assale ciascuno di noi quando ci prospettano un intervento chirurgico: la paura che ci sottopongano a un’operazione, magari rischiosa, di cui non avevamo bisogno, col rischio di morire sotto i ferri. Alla Clinica Santa Rita di Milano questo scempio accadeva regolarmente. Alla Santa Rita accadeva di tutto: asportavano mammelle per semplici cisti o noduli benigni, curavano broncopolmoniti e tubercolosi togliendo tutto il polmone, facevano diverse operazioni chirurgiche sullo stesso paziente quando ne bastava una. In spregio a ogni sentimento umano sono arrivati persino a operare tre volte in sette mesi una donna di 92 anni malata terminale di cancro, morta in sala operatoria. Il primo indizio che qualcosa non andava è stato l’importo dei rimborsi, superiori a quelli di strutture più grandi. Il secondo, il numero troppo alto di decessi nella Riabilitazione.
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