Nel 1993, durante l'interrogatorio di Salvatore Riina dopo il suo arresto, il giudice gli chiese se avesse proprietà intestate a suo nome. Questa domanda mirava a verificare se il capo di Cosa Nostra avesse beni ufficialmente registrati, un elemento chiave per collegare eventuali ricchezze personali ad attività illecite o dimostrare riciclaggio di denaro.
Riina, fedele alla sua strategia di omertà e negazione, rispose probabilmente con un secco diniego o con affermazioni elusive, negando di possedere alcunché. Era consuetudine per i boss mafiosi non avere beni a loro nome, utilizzando invece prestanome o complici per celare patrimoni accumulati illegalmente. Questo interrogatorio fu parte di uno sforzo più ampio per smantellare le strutture economiche di Cosa Nostra e colpire il cuore finanziario dell'organizzazione criminale.
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