La riflessione del vescovo Mario
Da una premessa articolata e definita «fondamentale», si avvia la riflessione del Vescovo. «Una constatazione, su cui è facile convenire, è che il mondo sia malato, sbagliato, che si sia frantumato, ma noi non siamo qui per fare diagnosi, ma per domandarci chi lo guarisca. Oggi, serpeggia l’atteggiamento di chi pensa che non tocchi a lui. Eppure, l’esperienza del Covid ha dimostrato che rivendicare la logica dell’individualismo è un’illusione».
Il pensiero va a un modo cristiano di interpretare la storia. «Mi faccio voce del cristianesimo lombardo che è sempre stato a proprio agio nella storia, interpretando la situazione come occasione, non come fatalità, perché ritiene che in qualunque situazione sia possibile scegliere ed esercitare la libertà. Questo fa dei cristiani dei seminatori di speranza».
Se questo è il primo «atteggiamento» da coltivare, il secondo e il terzo sono altrettanto chiari nelle parole dell’Arcivescovo. «Il cristiano, di fronte all’umanità che geme, si sente chiamato e interpellato; vive la sfida come una provocazione per mettere a frutto i propri talenti e risorse».
«Ho iniziato il “Discorso alla Città” con una citazione del profeta Geremia che, in una Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, decide di comprare un campo, indicando che ci sono buone ragioni per sperare. La speranza cristiana non è l’aspettativa o la previsione, è la risposta a una promessa che viene da Dio. Questo è l’antidoto più convincente contro due grandi insidie. Anzitutto, l’individualismo che vede il singolo come criterio del giudizio, di un bene e male che hanno riferimento solo al desiderio personale, per cui la società non ha più figli e desideri. Un individualismo che orienta la civiltà occidentale al suicidio. Inoltre, vi è la nostalgia di un passato in cui è preferibile tornare schiavi perché avventurarsi verso la terra promessa e il deserto è troppo pericoloso», per usare l’immagine biblica.
Al contrario, scandisce monsignor Delpini rivolgendosi direttamente ai giovani, «io voglio esortarvi a essere gente che investe sul futuro, non perché ha fatto previsioni che ne avrà un vantaggio, ma perché crede a una promessa affidabile e a una responsabilità. Tocca a noi tutti insieme aggiustare il mondo».
Poi, l’affondo sulla città e la terra ambrosiana a cui il “Discorso” è tradizionalmente indirizzato. «Milano dice appunto tutto ciò, pur rivendicando la sua radice laica, ma costatando che la gente che abita questa terra converge sull’idea che tocca a noi. La mia lettura di Milano è che ha funzionato».
E questo con alcuni punti fermi: «una visione condivisa della società e del futuro, costruita su un’adesione spontanea a valori che si riconoscono irrinunciabili come la modestia che ci consente di conservare la giusta misura di quello che possiamo fare senza sentirci colpevoli della nostra imperfezione perché, come ha insegnato la pandemia, un tale atteggiamento non trasforma il fallimento in annientamento».
Visione – questa – che ha anche dei precisi contenuti. «La famiglia perché, se la famiglia è malata, lo è anche la società. Nonostante molte ideologie sentano il tema-famiglia con una sorta di allergia, proprio questa tragedia ha dimostrato come la famiglia sia il luogo dove guarire tanti mali. Tocca a noi tutti insieme promuoverla e proteggerla. Un secondo valore è contrastare la globalizzazione del mercato, dove l’umanità stessa è destinata a diventare merce da vendere e comprare, con una visione che spinga a vedere nella differenza una ricchezza. L’umanità è chiamata a diventare una fraternità».
Infine, «la fiducia in se stessi che motiva la speranza e spinge a dire tocca a noi tutti insieme, perché possiamo farlo».
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