William Shakespeare, "Amleto" Atto terzo scena prima, Essere, o non essere"... Voce Diego De Nadai.
Siamo nell’atto terzo scena prima: la scena più celebre nella storia del teatro mondiale.
“Amleto” fu composta da William Shakespeare tra il 1600 e il 1601. , Il dilemma centrale del monologo è quello espresso dal primo verso: “To be or not to be”, ovvero “essere o non essere”, vivere o morire, agire o non agire?. Amleto si strugge, la vita è infatti presentata come una battaglia e una lista di pene e supplizi. Nel descriverla Amleto non accenna mai a fatti positivi o felici, ma solo a disgrazie. Ecco, quindi, che la morte rappresenta l’unica via di uscita, l’unica salvezza, ma affrontarla comporta coraggio, perché significa sfidare l’ignoto e le proprie paure. Da qui l’incertezza: vivere o morire? Agire o tollerare? non sapendo scegliere tra l’agire e il non agire e presenta due posizioni filosofiche: (da un lato un’attitudine stoica, che gli suggerirebbe di sopportare tutto il male e le sfortune che gli capitano, e dall’altra la scelta, vista quasi come salvifica, del suicidio,) Il problema di Amleto è infatti esistenziale e non si conclude con l’uccisione di Claudio, e la sua morte, che non rappresenta, quindi, né una conquista né una sconfitta.
Sono proprio i problemi senza soluzione, i dubbi di Amleto a rendere questa tragedia la più moderna tra quelle composte da Shakespeare, perché i dubbi di Amleto sono i dubbi dell’uomo moderno: la sua incapacità di comunicare e la sua mancanza di certezze rappresentano ancora oggi i problemi dell’uomo.
WILLIAM SHAKESPEARE,
Amleto (atto terzo, scena prima)
Essere, o non essere, questo è il dilemma:
se sia più nobile nella mente soffrire
colpi di fionda e dardi d'atroce fortuna
o prender armi contro un mare d'affanni
e, opponendosi, por loro fine? Morire, dormire…
nient'altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. Sì, qui è l'ostacolo,
perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire
dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale
deve farci riflettere. È questo lo scrupolo
che dà alla sventura una vita così lunga.
Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo,
il torto dell'oppressore, l'ingiuria dell'uomo superbo,
gli spasimi dell'amore disprezzato, il ritardo della legge,
l'insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo
che il merito paziente riceve dagli indegni,
quando egli stesso potrebbe darsi quietanza
con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli,
grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa,
se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte,
il paese inesplorato dalla cui frontiera
nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà
e ci fa sopportare i mali che abbiamo
piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti?
Così la coscienza ci rende tutti codardi,
e così il colore naturale della risolutezza
è reso malsano dalla pallida cera del pensiero,
e imprese di grande altezza e momento
per questa ragione deviano dal loro corso
e perdono il nome di azione.
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