Il 9 novembre del 1989, il muro di Berlino – costruito a partire dall’agosto del 1961 e immagine potente della “cortina di ferro” che aveva diviso in due l’Europa dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale – venne demolito da una folla pacifica e animata da grande entusiasmo, perché consapevole che distruggendo quell’innaturale barriera si compiva il passo decisivo verso l’abbattimento di un sistema oppressivo e oramai marcio.
Al crollo del muro fecero rapidamente seguito il collasso dei regimi comunisti dell’Europa centro-orientale e, nel dicembre del 1991, la dissoluzione dell’Unione sovietica. Alle speranze subitaneamente suscitate dalla fine della Guerra fredda – che aveva implicato la convivenza con la possibilità di un devastante conflitto nucleare – seguì la consapevolezza che la fase post-’89 comportava la gestione di problemi e sfide molto complicati. In questo contesto, l’integrazione europea – pur con le sue imperfezioni – si rivelò un ambiente politico/istituzionale capace di trasformare quei problemi in opportunità e adatto a vincere le sfide di breve, medio e lungo periodo generate dalla fine del mondo bipolare. Nell’immediato, i colpi di piccone che ridussero in polvere e calcinacci il muro di Berlino annunciavano la riunificazione tedesca.
Ma la (ri)nascita di una grande Germania nel cuore dell’Europa era osteggiata da molti governi europei, timorosi dello strapotere economico e geostrategico tedesco. La soluzione per sopire quelle preoccupazioni fu la fondazione dell’Unione europea – evoluzione della “vecchia” Comunità europea - sancita con il trattato di Maastricht del 1992. Un’Europa più forte e più coesa, con una moneta unica e una politica estera e di sicurezza comune, era lo strumento migliore per “ancorare” la nuova Germania ai partner europei, assorbendone la forza (soprattutto economico-monetaria) in una struttura comune. Era “l’europeizzazione della Germania” auspicata da Thomas Mann nel 1953 per impedire la “germanizzazione dell’Europa”, ossia l’egemonia tedesca sugli altri stati europei.
Nel medio periodo, si sarebbe poi posta la questione del consolidamento delle nuove istituzioni democratiche e della nuova organizzazione economica dei paesi dell’Europa centro-orientale usciti dalle dittature comuniste. La solidità politica ed economica di quei paesi andava a vantaggio anche dell’UE, che avrebbe potuto essere potenzialmente danneggiata da un “vicinato” instabile. Il loro ingresso, tra il 2004 e il 2007, nell’Unione europea avrebbe contribuito alla risoluzione del problema. Infine, nel lungo periodo gli stravolgimenti indotti dalla fine della Guerra fredda avrebbero obbligato l’Unione europea a darsi, gradualmente, strumenti più efficaci e più incisivi per agire nel nuovo scenario internazionale.
Per molto tempo l’UE ha risposto a questa esigenza dandosi il profilo di “potenza civile”, ovvero configurandosi quale attore che privilegia il multilateralismo e il normativismo al fine di promuovere un sistema internazionale basato su istituzioni e regole comuni. La recente guerra in Ucraina, è il ritorno della “politica di potenza” in Europa, ha indotto l’Unione ad avviare una ridefinizione della propria identità.
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