Luigi Pirandello.
Uno, nessuno e centomila. Libro Secondo.
Audio lettura sottotitolata. Voce di Giuseppe Tizza
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Uno, nessuno e centomila è l’ultimo romanzo di Pirandello. Oltre che l’ultimo, è estremo nella sua concezione e nella sua struttura, e infatti rende difficile da immaginare un ulteriore cimento su questa strada e, più in generale, mette in crisi la possibilità stessa del romanzo, almeno quello di impostazione tradizionale. Pubblicato a puntate sulla «Fiera letteraria» già nel 1925 e poi in volume da Bemporad nel 1926, secondo la testimonianza del figlio Stefano occupò lo scrittore per ben quindici anni in un difficilissimo travaglio creativo, quando è chiaro che dopo Sei personaggi in cerca d’autore la via teatrale era ormai la più congeniale all’avanguardia pirandelliana.
Un romanzo, dunque, da morte del romanzo. Con un titolo fortunato e divenuto proverbiale, a indicare un passaggio fondamentale della coscienza novecentesca.
Libro secondo
All’inizio di questo capitolo Vitangelo imbastisce un dialogo immaginario con il lettore, rispondendo a qualsiasi eventuale polemica questi possa muovergli contro, riguardo le sue recenti scoperte. Nessuno, infatti, ha mai prima d’ora avuto tale consapevolezza riguardo l’estraneità da sé e affermare il contrario significa per Vitangelo mentire. Tutti inoltre hanno:“ [...] la presunzione che la realtà, qual è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri” e suddetta certezza crolla nel perfetto istante in cui si diventa consapevoli della mutevolezza della realtà, in continuo divenire, e della necessità che il relativismo si instauri come un cuneo tra la coscienza e la conoscenza. La verità è inafferrabile poiché essa esiste solo in relazione alle percezioni di ognuno: ad esempio un semplice oggetto che, apparentemente può non aver alcun valore, è viceversa fondamentale per qualcuno che su di esso avrà riversato le sue emozioni e sentimenti, tanto che: “[...] la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi”. Lungo il filo di tali pensieri, Vitangelo dichiara di aver compreso solo ora come sua moglie Dida non lo conosca affatto perché ella ha sempre frequentato, dunque amato, quel suo caro Gengè. Quest’ultimo è una sua personale forma spesso odiata da Vitangelo (avrebbe sovente desiderato di schiaffeggiarlo, bastonarlo e sbranarlo) in quanto banalizzante e superficiale, lontana da quello che egli crede essere la sua essenza. Paradossalmente, nel momento in cui giungerà a questa conclusione, Vitangelo inizierà a essere geloso di Gengè, il solo e unico amante della sua Dida. Oltre alle riflessioni del protagonista, il lettore riceve qualche informazione in più riguardo la sua vita e i caratteri dei suoi conoscenti. Vitangelo difatti non ha una propria occupazione ma vive grazie alle rendite del padre usuraio gestite, dopo la morte di quest’ultimo, dai due sottoposti, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo. In particolare, il primo è descritto come spietato e cinico, protratto unicamente verso il denaro. Per il momento, tuttavia, Vitangelo ignora la sua reputazione e crede che il padre, e di conseguenza lui, vivano nella buona fama della famiglia, salvo scoprire presto come lui sia visto in città come un inerte parassita, il padre come uno spietato strozzino.
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Voce di Giuseppe Tizza
Giuseppe Tizza, Interprete e Traduttore, Am Gallberg 4, 40629 – Dusseldorf
Cell. 0039 375 620 2511 – pinotizza@gmail.com
Le letture di Giuseppe Tizza, che ringraziamo per il consenso, sono ascoltabili anche su PirandelloWeb:
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Sottofondo musicale:
"Ceremony" by Alex-Productions | [ Ссылка ]
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