Non lasciatevi ingannare da queste immagini che ci arrivano dalla stazione spaziale internazionale e dalla nostra astronauta Samantha Cristoforetti: anche fare un caffè espresso in orbita diventa un esperimento. E a quanto pare perfettamente riuscito, a giudicare dai volti soddisfatti di Samantha e del collega. La prima volta in orbita della bevanda calda, servita non nelle classiche tazzine ma in più funzionali sacchetti in plastica sigillati c’è stata lo scorso tre maggio ed è frutto del progetto tutto italiano della società Argotec in collaborazione con Lavazza, Finmeccanica e Selex.
Dopo questo piacevole esperimento però, Astrosamantha è tornata al lavoro per completare, nei suoi ultimi giorni in orbita, prima del rientro a terra previsto per il 14 maggio prossimo, le altre attività scientifiche in programma. Una buona parte è dedicata allo studio degli effetti della vita prolungata nello spazio sul corpo umano. Si va da dal monitoraggio di alcuni indicatori del metabolismo osseo e muscolare all’adattamento nei movimenti in assenza di gravità, alla verifica di eventuali cambiamenti nelle strutture cellulari e nel loro corredo genetico fino a test per ridurre l’osteoporosi da permanenza in orbita. Tutti esperimenti che avranno delle importanti ricadute anche nella medicina sulla Terra, e i cui risultati saranno altrettanto utili nella preparazione delle future missioni umane a lunga gittata, verso gli asteroidi e Marte. Ma gli astronauti che si imbarcheranno per quei viaggi, oltre l’assenza di gravità avranno un nemico in più: i raggi cosmici, un incessante flusso di particelle di alta energia che permeano lo spazio. Fuori dall’ambiente terrestre, che con la sua atmosfera e il suo campo magnetico ci fornisce un ottimo scudo, il solo guscio di una astronave spaziale non può molto per bloccare i raggi cosmici più energetici, che possono così raggiungere l’equipaggio e interagire con i loro tessuti biologici. Un nuovo studio, che ha indagato in laboratorio gli effetti dei raggi cosmici sul cervello di alcuni topi, conferma questo scenario. Le cavie sono state sottoposte a flussi di particelle nel NASA Space Radiation Laboratory, evidenziando, dopo sei settimane, una riduzione nei loro tessuti cerebrali di dendriti, le strutture filamentose che trasportano i segnali elettrici tra i neuroni. Un effetto simile a quello che si verifica in modo drammatico in malattie neurodegenerative come l’alzheimer. Sarà necessario dunque valutare con molta attenzione anche questo aspetto nelle future missioni, cercando opportune contromisure che fortunatamente sembrano non mancare. E magari, chissà, per minimizzare questi effetti potrà tornare utile anche una buona tazzina di caffè espresso appena fatto. Se non altro per diminuire la nostalgia della lontananza da casa…
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