Oltre 10 anni di indagini, perizie, carte bollate ma soprattutto di dolore, tanto dolore, per i famigliari di 470 morti e malati di amianto a Broni, è stata arrivata la parola fine sul processo Fibronit.
A scriverla, quando, di fatto, l’iter si era già concluso con un nulla di fatto tra prescrizioni, imputati passati a miglior vita e assoluzioni nella prima parte del processo, per almeno altrettanti casi, è stata la procura di Pavia, che ha chiesto l’archiviazione per il procedimento ufficialmente avviato nel 2009. Fu allora che 10 persone tra ex dirigenti e funzionari della fabbrica furono accusati di omicidio e lesioni colpose finendo alla sbarra nel 2011.
L’ultimo atto del processo si era concluso nel 2022 con l’assoluzione in appello-bis, dopo che la Cassazione aveva ribaltato le precedenti condanne al primo e secondo grado di giudizio. Il problema, secondo la Cassazione, era l’impossibilità di stabilire con certezza il nesso temporale tra l’esposizione all’amianto e l’insorgere del tumore: individuare colpevoli, viventi, insomma, era impossibile.
“Pur dando per scontato che tutte le vittime abbiano contratto il mesotelioma a causa delle polveri prodotte dallo stabilimento di Broni - scriveva la Cassazione - non si può determinare se il periodo 1981/1985 - durante il quale gli imputati ricoprivano ruoli di responsabilità” fosse proprio quello in cui avevano avuto inizio le malattie.
La Procura di Pavia ha rilevato così “il tentativo, più storico che penalistico, di dare una risposta alla tragica strage” e che oggi non si può proseguire con “ulteriori attività di indagine”.
Conclusione amara, dunque, quella ammessa dalla stessa procura: “la prospettiva penalistica non ha saputo offrire una tutela alle vittime del contagio da fibre di amianto né ai loro prossimi congiunti”.
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