Tourist Trophy , finalmente ho avverato il mio ennesimo sogno, vederlo con i miei occhi, toccarlo… sentirlo… questo è uno dei miei ricordi che voglio conservare, da dietro la mia visiera, il giro completo seppur in condizioni di regolare circolazione stradale.
“Al Tourist Trophy se cadi, muori. Eppure il suo fascino è irresistibile.”
Una semplice pacca sulla spalla. Questo è il segnale dell’inizio, il momento in cui il pilota molla la frizione e parte per il suo personale toboga sullo Snaefell Mountain Course, 60,7 km di lunghezza da ripetersi più volte a seconda della categoria: oltre 200 curve che si dipanano tra le strade dell’isola di Man, sfiorando muretti, pali della luce, case e strapiombi in un costante “paso doble” con quella che, nella migliore delle ipotesi in caso di errore, potrebbe essere la fine di tutto. Questo è il Tourist Trophy, una gara su strada nata nel 1907 e che da allora ha affascinato e fatto discutere generazioni di appassionati. Si è presa centinaia di vite (tra piloti, pubblico e marshal) e nonostante ciò sopravvive, incurante delle critiche, fiera del suo anacronismo e della sua dura onestà. Perché il TT sa di non essere un “controsenso” (e per certi versi neanche una semplice gara di moto) ma semplicemente l’espressione più razionale della follia. O, se volete, l’espressione più folle di una cosa che consideriamo normale, come lo scorrere naturale della vita.
Non è facile raccogliere i pensieri se sei fresco di ritorno da quell’isola e, per la prima volta, hai potuto toccare con mano quello che questa gara rappresenta. Uno sguardo dal vivo, ripulito dalle critiche di chi lo osteggia e dall’immagine leggendaria che ce ne danno i DVD. Il Tourist Trophy, infatti, non lo conosci solo attraverso i salti meravigliosi di Mc Guinness al Ballaugh Bridge o ammirando le staccate di Bruce Anstey alla curva del Creg-Ny-Baa, e non puoi soprattutto pensare di conoscerlo leggendo gli articoli feroci che esplodono come supernove di inchiostro e carta ogni qualvolta un pilota ci lascia le penne. No. Il senso del TT lo puoi percepire solo nella maniera più assurda possibile (almeno su quelle strade), ossia camminando a piedi per il tracciato, toccando le protezioni disseminate lungo le curve, saggiando col piede i cordoli bianchi e neri (smussati ma pur sempre di pietra dura), osservando la tenera inutilità dei materassi messi dagli abitanti dell’isola e che avvolgono i pali della luce a bordo strada (a 200 km/h il palo della luce lo puoi ricoprire anche di marshmallow, ma non cambia l’esito dell’impatto). Chi corre il TT, infatti, vince anche se non arriva primo, vince anche se non arriva, in realtà. Il solo motivo di essere lì e giocarsi tutto per qualcosa di intangibile come la passione, è già una vittoria. Non ci sono milioni di euro in ballo, non c’è il sogno di una vita agiata alla fine del Gran Premio. Chi corre qui, se vince, si porta a casa la coppa con l’effigie del Mercurio Alato, se perde, invece, coltiverà la speranza di poter correre ancora il prossimo anno. Tutti però, vinti e vincitori, ottengono qualcosa di molto più importante, ossia l’amore della gente, l’affetto incondizionato di chi sta guardando un eroe.
Dicono che il limite per i piloti è un concetto fluttuante, che il limite va superato, che con lui si danza e, spesso, il campione è proprio quello che sa spingersi oltre le proprie possibilità. Beh, se ciò è vero in circuito, qui sullo Snaefell Mountain Course, il limite è tutto tranne una linea da cavalcare. Qui, questo termine trova il suo senso etimologico più vero: il “limite” sull’Isola è un limite. Oltre a esso non c’è la via di fuga, o una scivolata, o un un dritto sulla ghiaia. Il limite è un muro (un muro vero!) che non puoi oltrepassare. Ed è questo, nella sua crudeltà, a rendere il TT qualcosa di immensamente affascinante. Per riuscire a essere veloci tra quelle curve, infatti, non bisogna sapere quando “darci del gas”, è necessario sapere quando bisogna “toglierlo”. Sembra folle, l’ennesimo controsenso, ma a pensarci bene non lo è. Lucida follia, un continuo gioco a levare, indispensabile per provare a toccare quel limite. Una partita coerente, senza inganni, come appunto dovrebbe essere la vita.
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